La Non Direttività Interveniente

a cura di AINDI

    La non direttività interveniente chiamata anche NDI è innanzitutto un metodo di animazione e di psicoterapia che ho definito per la prima volta negli anni 80. Ma è anche molto di più: una forma di rapporto nel campo della comunicazione umana.

      Il rapporto interpersonale che indica questa formula si oppone radicalmente al rapporto che possiamo definire direttivo; cioè al rapporto che è nello stesso tempo interveniente e direttivo.

      In linea di massima, un intervento è un modo di agire su qualcun altro per informarlo, convincerlo o incitarlo a fare una determinata azione. L’intervento direttivo non si accontenta di trasmettere un messaggio. Esercita una pressione coercitiva in modo che il messaggio passi o produca gli effetti che si vuole che produca. Usando la paura di una certa sanzione o di una certa minaccia, si ottiene lo scopo ricercato. L’altro non è rispettato. È manipolato e la sua adesione è superficiale e temporanea, anche se compie l’azione che gli si vuole fare compiere. Se, diversamente, si vuole che interazioni forti e profonde si producano nel campo sociale, in altre parole che esistano legami tra le persone, impegni importanti, amicizie durevoli, importa mettere in gioco interventi non direttivi fondati sulla convinzione e sull’accettazione libera.

      Questo è ancora più vero nei campi terapeutici e pedagogici, cioè laddove si pretende suscitare nelle persone dei veri cambiamenti, per fare imparare, fare evolvere o guarire.
È fondamentale che, in questi campi particolari, gli individui siano coinvolti personalmente in quanto le trasformazioni che vengono loro proposte sono di ordine interiore, intimo. I comportamenti ottenuti attraverso le costrizioni che possono essere utili nello spazio sociale esterno (ordine sulla strada, barriere contro azioni dannose, spostamenti, ecc.) non sono più utili a questo livello bensì addirittura nocivi. Come hanno dimostrato recenti ricerche sulle “motivazioni intrinseche” ed “estrinseche”, perfino la messa in gioco di costrizioni indirette e differite quali diplomi, programmi, pianificazione del tempo, ecc. nuocciono alle “motivazioni intrinseche” che sono le più utili per l’arricchimento psicologico.
In questi campi, si pone il problema della natura dell’intervento. Se siamo d’accordo a pensare che bisogna sempre seguire i desideri degli individui di cui ci si occupa, secondo il “principio dell’ascolto del desiderio”, non è possibile seguire tutti i desideri. L’animatore, il professore, l’animatore di gruppi oppure lo psicoterapeuta deve fare una scelta in funzione dei suoi valori e delle mete che intende raggiungere rispetto al partecipante. In generale, deve privilegiare l’espressione e cioè un’attività fondamentalmente creativa che prende come materia l’attività propria del soggetto. I desideri che sceglie di aiutare sono quelli che mirano alla costruzione psicologica.
Questo significa che gli interventi si situano a tre livelli.

      Ad un primo livello, è possibile distinguere:
a) gli interventi che mirano a fare emergere i desideri e che utilizzano i metodi automatici, proiettivi ed immaginari,
b) gli interventi che mirano a realizzare i desideri e che sono più costruiti, più controllati (psicodramma, disegno, racconti, ecc.).

     Ad un secondo livello, si possono distinguere interventi di natura più verbale (comunicazioni, esplicitazioni, analisi, teatro, Ecc.).

     Ad un terzo livello, è possibile opporre gli interventi nettamente esteriorizzati ispirati dalla bioenergetica, ad esempio, a quelli che sono interiorizzati ispirati dalla gestalt, il sogno guidato, le tecniche di concentrazione, ecc.

     Ovviamente, questo non definisce interamente l’attività dell’animatore, qualunque siano gli scopi che persegue. Rimangono due attività importanti che non sono state evocate e cioè da una parte l’osservazione costante dei partecipanti e della loro evoluzione e da un’altra parte la riflessione costante che prosegue per cercare di capire questa evoluzione, utilizzando eventualmente delle griglie teoriche diverse.

     Se si integrano queste ultime attività alle due precedenti, si ottengono quattro pilastri dell’animazione e cioè:
1. L’ascolto attivo con riformulazione ed empatia (dimensione rogersiana),
2. L’intervento con le sue diverse modalità,
3. L’osservazione dei comportamenti e dell’evoluzione dei partecipanti,
4. La riflessione teorica sulle cause e le origini, che porta a predizioni e ad ipotesi.

Traduttore : Thierry Bonfanti

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