Una (im)possibile rappresentazione del tempo per l’individuo e l’organizzazione

a cura di Mauro De Martini
{mosimage}La gestione del tempo è uno dei temi fondamentali della vita dell’uomo e delle organizzazioni. Nei sistemi organizzati spesso è percepita una forte tensione: l’oscillazione tra ciò che è importante e ciò che è urgente. La lotta quotidiana tra il rincorrere l’emergenza e il lavorare per obiettivi prioritari lascia spesso nelle persone un senso di sconforto e l’impressione di aver concluso poco. A questo problema c’è soluzione? La risposta organizzativa potrebbe essere concepire il tempo come una risorsa. Tale risorsa peraltro ha caratteristiche peculiari che la differenziano essenzialmente da tutte le altre risorse di cui l’organizzazione si avvale: il tempo è unico, non è immagazzinabile, non lo si può far scorrere più velocemente, né più lentamente, e non può essere fermato. L’interpretazione del tempo come una risorsa ha dato origine al capitolo del time management. Tuttavia, le tecniche che il time management propone fanno riferimento a presupposti culturali che sarebbe interessante esplicitare e, laddove fosse utile, integrare o criticare. Per far ciò usiamo un metodo ingenuo, ma che può rivelarsi utile per affrontare un problema complesso e stratificato come la tematica temporale. Iniziamo prendendo in considerazione le nostre esperienze quotidiane del tempo ed analizziamo quali espressioni usiamo per comunicare il nostro rapporto con il tempo.

 

“Vorrei che la mia giornata fosse di quarantotto ore”: è una frase che abbiamo pronunciato o abbiamo sentito pronunciare in situazioni in cui il tempo sembrava insufficiente per portare a termine gli impegni. Usiamo spesso frasi dello stesso genere, che richiamano la mancanza di tempo: “non ho tempo”, “mi manca il tempo per…”; “per realizzare questo progetto il tempo non basta”; “il tempo stringe”; “il tempo è tiranno”; “il tempo incalza”. Abbiamo anche coniato espressioni come: “tempo libero”, che, forse, presuppone “un tempo occupato” o, addirittura, un tempo “schiavo”; “darsi buon tempo” o “darsi bel tempo”. Possiamo dire che un lavoro “ruba il tempo al sonno”; c’è poi un “tempo pieno” e un “tempo parziale”; esistono “tempi burocratici”, “tempi tecnici” e “tempi gestionali”, “tempi ordinari” e “tempi forti”. Infine la saggezza popolare ricorda che: “il tempo è denaro”; “chi ha tempo non aspetti tempo” o “chi dà tempo al tempo perde tempo”.
Riflettendo su queste espressioni ci accorgiamo immediatamente della loro paradossalità e del loro evidente riferirsi ad altro. Se avessimo veramente un giorno di quarantotto ore i nostri problemi sarebbero risolti? Certamente no! Cambiare l’unità di misura non muterebbe minimamente il senso della nostra inadeguatezza! Queste considerazioni, ciò nondimeno, sono banali. Sembra importante, al contrario, andare all’origine del concetto di tempo e comprendere la sua genesi. Indaghiamo la nostra storia, non partendo dalla parola tempo, di derivazione greca, che però riceviamo filtrata dalla cultura latina, ma dai termini originari che i Greci usavano per nominare il tempo.
Il mito sta all’origine del concetto di tempo1. La parola usata dalla cosmogonia e dalla tradizione orfica era chrónos. Il chrónos è il tempo ciclico, è il dispiegarsi della necessità in cui il tutto è immerso. Anassimandro, filosofo presocratico, si riferisce al tempo (chrónos) con queste parole: “da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, DK., fr.1). Il tempo ciclico (Kýclos) è il susseguirsi delle stagioni, è l’aprirsi e il richiudersi del cerchio in cui non c’è spazio per la libertà individuale, è la perfetta sovrapposizione tra la fine (la morte, il confine oltre cui non c’è più tempo) e il fine. Tralasciando l’etimologia primitiva e riferendoci ad un gioco di parole di epoca successiva, il chrónos viene identificato con Crono il padre di tutte le cose, che divora i suoi figli. Chrónos è il tempo che divora l’uomo.
I Greci avevano però un’altra parola per dire tempo: kairós. Il kairós è il tempo opportuno, conveniente, la buona occasione, il momento propizio. Da una prospettiva che potremmo definire oggettiva (chrónos) passiamo ad una prospettiva soggettiva (kairós). Ciò che prevale in questo modo di esprimere il tempo è l’obiettivo che l’individuo si pone. Ancora una volta la fine coincide con il fine, tuttavia, in questo caso, la fine non si identifica più con la morte, ma con il raggiungimento dell’obiettivo (la meta), e il fine è determinato dall’uomo. L’uomo si muove comunque in una temporalità “cronologica”, ma in una prospettiva in cui prevalgono la libertà e la responsabilità individuale. I Greci inoltre usavano una parola per definire il tempo in cui gli oratori potevano parlare all’assemblea: udór. La clessidra riempita di acqua (udór) definiva anche il tempo dell’intervento (udór). L’ udór è un segmento di tempo cronologico. In esso però sono fissati solo gli estremi. All’interno degli estremi l’individuo può esprimere se stesso liberamente.
A questo punto è lecito interrogarsi sui modelli che nascono dal concepire il tempo secondo il chrónos, il kairós e l’udór. Mentre il tempo cronologico, che per semplicità possiamo chiamare tempo oggettivo, propone il primato dell’omogeneità degli istanti, della misurabilità del tempo in elementi discreti, il kairós, che denominiamo tempo soggettivo, ci pone dinanzi ad una disomogeneità e ad una disgregazione dipendente dalle scelte soggettive e dagli obiettivi che gli individui si propongono. L’ udór, infine, è il tempo che ci è dato: la rappresentazione della vita come segmento in cui esercitiamo la nostra libertà. Prima del punto d’inizio c’è l’eternità dell’Essere, così come dopo il punto di fine. L’ udór è una forma di esistere (ex “fuori” sitere “stare”), uno sorta di star fuori dall’Essere.
Ritorniamo alle frasi pronunciate sopra che evocano la mancanza di tempo. Esse sono coerenti con questa visione: il tempo è una dimensione che non dipende da noi, che noi subiamo come ritmo necessario cui non possiamo opporci. L’immagine del tempo cronologico è vicina ad un tempo spazializzato ed oggettuale. Ossia, per poter concepire il tempo lo rappresentiamo come un insieme di oggetti. Da qui la frase “non ho tempo”, come se il tempo fosse una cosa. Usiamo una metafora: il tempo così concepito è come una scatola in cui possiamo mettere le nostre attività. Le nostre attività sono piccole scatole cui diamo una dimensione cronologica e cerchiamo di ordinarle nella scatola più grande. Una volta riempita la scatola non c’è più posto per altre attività. A chi non è mai capitato di guardare l’agenda come ad un recipiente di cose che devono essere fatte? L’unico modo per migliorare la situazione potrebbe essere migliorare l’efficienza, aumentare la velocità delle nostre operazioni. Purtroppo però si ripresenterebbe sotto altra forma il paradosso della giornata di quarantotto ore.
Ma è proprio vero che noi siamo dominati da un tempo oggettivo? Osserviamone più da vicino l’oggettività. Se torniamo alla nostra storia, a quella più recente, il tempo che chiamiamo oggettivo si presenta come una convenzione. Nelle organizzazioni, per esempio, ha dominato per anni una concezione temporale nata dal taylorismo2, in cui la misura delle operazioni umane era scandita dal cronometro per aumentare la produttività e limitare al minimo i tempi di inattività delle persone e degli impianti. È chiaro che il tempo, in questo caso, riceve il proprio senso dall’immagine dominante di uomo e di organizzazione, non viceversa. Anche il modello fordista, affermatosi in seguito, prendeva le mosse dall’immagine di fabbrica verticalizzata in cui la sincronizzazione di tutte le operazioni assicurava una risposta armonica alle sollecitazioni del mercato: un tempo senza “strappi”. Oggi la contromisura temporale alla nuova economia è un just in time portato a livelli estremi. Dalla lotta per arrivare primi si sta passando alla gara per essere assolutamente puntuali, quasi contemporanei al bisogno espresso dal cliente. È la sfida del “in tempo reale”. Ancora una volta il tempo è concepito in funzione di altri fattori: in un’economia quasi senza peso la proprietà stessa è un impedimento. Possedere qualcosa per un determinato tempo significa immobilizzare capitale e perdere denaro.
A questo punto possiamo notare quanto viviamo immersi in paradigmi temporali che non sono altro se non risultati di modelli umani e sociali. Ciò non riguarda solamente i già citati paradigmi temporali condivisi nelle aziende, ma anche gli archetipi temporali del mercato, della macchina governativa e di quella burocratica. Pertanto il tempo si configura come un riferimento, un punto di incontro dell’interazione collettiva, più che un ingranaggio impietoso ed inesorabile. Ma i nostri vissuti temporali sono completamente riconducibili ai paradigmi condivisi a livello sociale/collettivo? Dare una risposta a questa domanda ci sembra molto difficile. Forse è necessario rimandare la risposta ipotizzando, per comodità, l’esistenza di un doppio livello di concezione del tempo: un livello sociale ed un livello soggettivo. Con soggettivo, in questo caso, non intendiamo “relativistico”, ma relativo al soggetto. Tale duplicità di livelli deve essere altresì chiarita. Poniamo ora l’accento sui legami che i nostri vissuti soggettivi del tempo intessono con i nostri obiettivi e, ancor più profondamente, con i nostri valori. Quali concezioni del tempo seguiamo? Quali “valori temporali” ispirano il nostro agire?
Rispondere a queste domande significa assumerci la responsabilità del nostro tempo, e ciò comporta un certo coraggio perché dobbiamo rendere espliciti i nostri valori e le nostre priorità. Consideriamo poi l’ulteriore complicazione che sorge se ci esprimiamo sul rapporto tra individui ed organizzazioni. Nelle organizzazioni infatti osserviamo l’intrecciarsi dinamico tra i valori degli individui e i valori della collettività. Da ciò nasce l’importanza di chiarire il nesso esistente tra individuo ed organizzazione in rapporto alla “gestione del tempo”, riportandoci bruscamente a domandarci cos’è il tempo per noi.
Andiamo al legame tra tempo e uomo, tra temporalità e condizione umana. Molti filosofi e psicologi3, pur con metodologie ed esiti differenti, individuano l’origine della temporalità per il soggetto nella durata dell’essere vivente. Paola Reale, in un testo che risale ormai al 1982, ma che rappresenta una significativa rassegna delle principali teorie psicologiche e filosofiche sul tema del tempo, scrive: “Si può affermare che il fenomeno della irreversibilità è tipico del vivente, nei geni del quale è iscritta la propria durata. Ma se la durata è un dato tipico del vivente, è altrettanto vero che non tutti i viventi hanno coscienza della durata: infatti l’animale superiore è in grado di conservare il passato, ma non ha coscienza della durata; soltanto l’uomo ha coscienza della durata in tutta la sua complessità, poiché possiede un futuro che inerisce all’idea di morte. La dimensione temporale è quindi una costruzione della coscienza, e anzi si può affermare che ne costituisce l’aspetto fondamentale4”.
Sappiamo quindi che, quando parliamo della vita, dobbiamo anche fare i conti con la morte. Con la morte degli altri e con la nostra stessa morte. Infatti possiamo chiederci: che senso avrebbe questionare sul tempo se fossimo immortali? Ciò spiega l’angoscia per il tempo che scorre, le nostre paure e i nostri dubbi per il futuro, le nostre ipocrisie e i nostri nascondimenti nel gestire le priorità. Contemporaneamente spiega la tensione affinché ogni momento della vita abbia un gusto saporoso e, forse, chiarisce l’anelito ai mondi possibili e la nostalgia perenne per la loro perdita (o irrealizzabilità). Inoltre la morte accompagna non solo la fine della vita, ma ogni suo momento, perché il bambino deve “morire” perché “nasca” l’adulto e ogni esperienza deve finire per lasciar posto ad un’altra.
In sintesi, il tempo non è fuori di noi, come fosse una realtà a sé stante, o un oggetto, non è neppure dentro di noi: è il complesso di forme con cui rappresentiamo a noi stessi il nostro avere come dimora la vita. La gestione del tempo, sia per l’individuo che per l’organizzazione, letta in questa prospettiva, non coincide più con l’uso di una risorsa, ma è il disvelamento dei paradigmi di uomo e di vita che stanno dietro le varie forme rappresentative del tempo.
Tali considerazioni forse non danno una risposta alle domande poste all’inizio, ma come mettere il punto fine ad un argomento così enigmatico, così intrecciato con la nostra vita? Lasciamo la parola ad un autore che con sguardo disincantato ha osservato la vita e ci ha lasciato una lettura tutta sua del tempo che passa: ” L’orologio lo ebbi e assai presto. Me lo regalò la mia madrina di battesimo, che stava a Lugano. […] …dopo un paio di settimane l’orologio, che chissà quali colpi aveva preso in guerra, con altri colpi che gli diedi io, si fermò. […] Ereditai altri orologi in seguito, di poco prezzo, finché a trent’anni ne comperai uno d’oro molto elegante, ma con una cassa leggerissima, proprio un velo di metallo, che finì col consumarsi e bucarsi come una calza. Dal buco entrò la polvere, e forse l’acqua, che lo guastò.
Da allora ne ebbi degli ottimi, d’ogni qualità, sempre in regalo, più che graditi, ma arrivati tardi, quando il tempo da misurare non era più quello degli anni felici e spensierati5″.

[1] Per un approfondimento si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 1987.
[2] Ad una trattazione sistematica della tematica temporale nell’organizzazione è dedicato Il Tempo , di Luciano Pero, in Manuale di Organizzazione Aziendale, vol. II, a cura di G. Costa e R. Nacamulli, Utet, Torino 1997.
[3] P. Reale, La psicologia del tempo, Boringhieri, Torino 1982.
[4] Ivi, pag. 164.
[5] P. Chiara, Ora ti conto un fatto, Mondadori, 1980, pag. 55 e sgg.

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